Manhattan: the day before tomorrow
sabato 27 agosto 2011
di Claudia Svampa
Ieri sera ho lasciato Manhattan sotto una pioggerellina leggera. Clima mite e umidità entro limiti accettabili.
Partenza alle 21.40 dal JFK lasciandomi alle spalle una città con scaffali dei supermercati traboccanti di ogni sorta di acque minerali - agli americani piacciono da sempre, magari aromatizzate all’uva spina o al cedro verde - pane, tomato sauces, marmellate, steaks, würstel di ogni genere e, naturalmente batterie e torce elettriche.
La Fifth Avenue - come ogni giorno dell’anno - era stipata di turisti, e sgombra di sacchetti di sabbia. Lo store di Abercrombie, come quello dell’Apple e il terzo piano di Tiffany (braccialetti e collanine in argento con l’irrinunciabile must a forma di cuore “Return to Tiffany”) erano la solita little Italy di nuova concezione: migliaia di italiani, in fila almeno un‘ora, per riportare a casa la felpa Abercrombie & Fitch, l’iphone 4 (rigorosamente da jailbreakare perché quello americano in Italia non funziona) o il ciondolino Tiffany (i più gettonati dell’estate 2011 erano le riproduzioni del pacchetto verde acqua Tiffany con fiocco bianco e la bustina shopping negli stessi colori).
Nove ore di volo, neanche un minuto di ritardo, e ritrovo sulla stampa italiana una Manhattan da catastrophic movie.
Come se, nel volgere di una notte, tutti i newyorkesi avessero assaltato supermercati e stores per approvvigionarsi in vista di un attacco alieno. Generi di prima necessità esauriti, scazzottate per un’ultima bottiglia di acqua minerale, pop corn introvabili, mancano solo le telecronache dei donuts e del burro d’arachidi venduti a borse nera e la sceneggiatura è completa.
Un pò come la storia del terremoto di qualche giorno fa. Che grazie alla provvidenza c’è stato di giorno, altrimenti io, insieme a un’ingente massa di connazionali a New York avremmo passato la notte in bianco a tranquillizzare parenti e amici in Italia convinti dai notiziari che i propri congiunti si trovassero sotto le macerie dei grattacieli venuti giù come burro fuso a causa del terrificante sisma.
Invece, il terremoto a Manhattan, non l’ha sentito nessuno che non fosse ai piani alti di un grattacielo. E anche chi da lì su ha oscillato, non ci ha messo troppo a scendere in strada e capire che nulla di preoccupante stava accadendo: Central Park brulicava di turisti e americani sdraiati sui prati fra hot dog e gelati, Fifth, Madison e Park Avenue proseguivano placide lo struscio dello shopping, Battery Park imbarcava regolarmente per Ellis Island e la statua della Libertà e anche Time Square gorgogliava di manine che facevano ciao-ciao sul maxi schermo al centro della piazza per finire nell’inquadratura della foto ricordo.
Irene, il “devastante” uragano, arriverà probabilmente domani a New York, avendo peraltro perso forza nel percorso ed essendo sceso da categoria 2 a 1. Che una città come New York abbia preparato un piano di evacuazione dalle zone a rischio inondazione appare una misura precauzionale ragionevole. Che il fine sia quello di ridurre al massimo i danni e quindi i costi sembra più verosimile dello scenario apocalittico da rischio tzunami paventato dai media.
Anche perchè, enfatizzando improbabili catastrofi a beneficio degli ascolti, la possibilità di determinare vittime collaterali all’informazione può diventare realtà. A cominciare, ad esempio, da tutte le persone anziane parcheggiate ad agosto davanti alla tv e che, avendo congiunti a New York, rischiano seriamente un infarto avendo come unica fonte di informazione i Tg.
Come se, nel volgere di una notte, tutti i newyorkesi avessero assaltato supermercati e stores per approvvigionarsi in vista di un attacco alieno. Generi di prima necessità esauriti, scazzottate per un’ultima bottiglia di acqua minerale, pop corn introvabili