Amartya Sen e l'idea di giustizia intrappolata a sinistra
giovedì 26 maggio 2011
di Claudia Svampa
Silvio Berlusconi ieri sera da Bruno Vespa oltre alla consunta piece cabarettistica - “telefonerò al nuovo governo egiziano per chiedere la liberazione di Mubarak in quanto zio di Ruby” - offriva i titoli ai giornali di oggi rintuzzando l’opposizione sul fatto che il voto a sinistra può darlo “solo chi lascia il cervello a casa”.
Fabrizio Corona in contemporanea e a reti differenziate, ieri sera da Alessio Vinci si infervorava lapidario sulla certezza che la politica in Italia oggi si fa solo su Dagospia e Chi, visto che il leit-motiv è il gossip e che il giornalismo imparziale non esiste più. Detto da un mass-mediologo apparirebbe come fatto ineluttabile, quale disgraziatamente è, ma per fortuna il verbo è solo Corona che nell’intellighenzia lignea e sempreverde dei radical chic televisivi ha il peso specifico della balsa - il più leggero al mondo - e dunque il dato può essere derubricato a smargiassata al cubo.
Amartya Sen, l’economista indiano premio nobel nel 1998, ventiquattrore prima partecipava a un workshop a Roma organizzato dalla CGIL Spi (Sindacato pensionati italiani) dal titolo suggestivo : L’azione giusta. Si evidenziava, nel programma, il virgolettato del suo ultimo libro in cui si afferma che “esistono ingiustizie risolvibili a cui desideriamo porre rimedio”. Sen ha illustrato alcune delle sue pluripremiate teorie, come quella secondo cui gli indicatori di reddito - assurti a unità di misura - non costituiscono parametri di riferimento che includano anche la libertà di vivere a lungo, la possibilità di preservare lo stato di salute o l’incolumità rispetto a fatti criminosi, o ancora la contropartita di concorrere all’ottenimento di un impiego decente.
“L’approccio delle istituzioni ideali - ha sottolineato nella sua lectio magistralis - può essere visto in maniera diversa, poichè l’approccio reale non si concentra sulle vere e proprie vite che le persone possono condurre”. Che il mondo sia contaminato da ingiustizia sociale ce ne rendiamo tutti conto senza l’ausilio della cattedra. Allo stesso tempo che gli equilibri geopolitici ed economici ne detengano, a torto o a ragione le redini, appare realisticamente accertato anche da chi non ha mai letto un solo editoriale di Caracciolo su Limes. Tuttavia l’economista tenta di soffiare nell’aria un polline di conoscenza che se individuato e indirizzato potrebbe anche portare frutti. E questo non pare così evidente a chi non vuole intendere.
Se uscissimo fuori dal nostro piccolo mondo antico - quello della Fiat di Marchionne o dei tavoli sindacali, della No-Tav o delle centrali nucleari - vedremmo che a una spanna da noi ristagnano le vite che le persone potrebbero condurre ma che gli è impedito di vivere. Sono le vite di coloro che oggi premono alle nostre porte. E sono drammaticamente tante. Tutte già in marcia.
Vediamo, senza bisogno di chiromanti o iettatori, ma con indispensabile obiettività, che qualche milione di esseri umani non se ne starà più buono e accucciato sotto a un misero pil da terzo mondo in attesa di una manciata di granaglia e di aiuti umanitari da parte della collettività internazionale.
La lezione dell’economista allora, seppur calata nella realtà welfaristica del sindacato CGIL dei pensionati italiani, avrebbe potuto godere di un respiro più ampio, almeno nel confronto con la stampa, dove il tratto erudito economico e filosofico veicolato da Amartya Sen per forza di cose si sarebbe dovuto alzare in volo più in alto dei cassintegrati italiani, dei pensionati sotto i 500 euro, del baratro assistenziale alla terza età. Perchè è lo stesso concetto di ingiustizia sociale ad imporre confini più ampi per poi poter concretamente intervenire sui bisogni dei singoli cittadini dei singoli paesi.
E invece è rimasto ostaggio involontario di un comparto politico ancora imbozzolato in un’idea vaga e marginale di multiculturalismo cacio e pepe, convinto che l’immigrato “mussulmano” (sì quello con le due “ss” che rivela tanto nel refuso quanto nell’analisi una voragine conoscitiva) il “mussulmano” appunto che pratica la mutilazione genitale perpetra una ritualità legata alla tradizione tirannica che risulta offensiva per i cittadini dei paesi in arrivo e in base a ciò non dovrebbe essere consentita.
Suonano accordate le parole del saggio economista quando dice che “ogni essere umano deve essere immune dall’imposizione del dolore” ma solo se questo dolore è geolocalizzato a Guantanamo come strumento di tortura e dunque ha armonia politica a sinistra.
Viceversa la pratica dell’infibulazione - drammaticamente liquidata come offensiva per i paesi ospitanti e ciecamente confusa come espressione, seppur tirannica, di tradizione culturale - si applica ancor di più al “diritto di ogni essere umano di essere immune dal dolore” aggiungendo forse anche una clausola: il dovere di riconoscere il crimine oltre i confini angusti di posizioni politiche, e l’infibulazione oltre a essere un crimine contro le bambine è un crimine contro l’umanità intera.
Sarebbe stato bello e giusto, sarebbe stata “un’idea di giustizia” coerente, per una giornalista con vent’anni di professione alle spalle, che si è regolarmante accreditata ma non risulta politicamente schierata, che ha partecipato e seguito l’intero convegno (dalle 10 alle 17) organizzato dalla CGIL-SPI, che ha chiamato il capo ufficio stampa del convegno per ben quattro volte (ormai i tabulati telefonici fanno più fede di una raccomandata) per chiedere - qualora possibile - un’intervista al premio nobel per una testata istituzionale e tematica sulle libertà civili, le giustizie sociali, sarebbe stato bello e giusto non essere volutamente messa al margine.
Sarebbe stato bello e giusto, almeno, permetterle di partecipare alla ristretta conferenza stampa organizzata in sordina in una saletta appartata - e a lei taciuta - con i colleghi del Manifesto o dell’Unità, al margine del convegno.
Sarebbe stato bello e giusto, in ultima analisi - quando è riuscita comunque a “imbucarsi” grazie a una gentile “soffiata” nella suddetta conferenza stampa ormai in chiusura - permetterle di fare anche almeno una domanda senza sentirsi rispondere uno stizzoso e secco “no”.
Eppure questo è stato. Questo, inverosimilmente accade quando si tenta di uscire dal recinto prestabilito di ciò che dovrà esclusivamente essere pubblicato il giorno dopo su blog e giornali lungo la monorotaia del pensiero caro alla sinistra imperativa: almeno un pò di sbraco-Fiat, l’intervento di Epifani, e il sermone CGIL.
Ciò mentre Cameron e Obama, a una manciata di chilometri terrestri e a distanze siderali di lungimiranza socio-politica rinsaldano leadership e dettano ineluttabilmente le agende dell’economie, delle libertà e dei diritti sociali nel mondo. “L’azione giusta” nei confronti della stampa fuori circuito è stata quella dell’esclusione, perchè i temi sociali aperti da Amartya Sen restassero confinati nei prodotti a marchio CGIL.
Non sproloquiava Fabrizio Corona ieri sera a Matrix nel suo sillogismo cafonal e trash: se la politica italiana è fatta di gossip il giornalista, per lavorare, non può che essere schierato.
E, parafrasando SIlvio Berlusconi ieri sera a Porta a Porta, si potrebbe anche dire che più che l’elettorato è la sinistra stessa, troppo spesso a lasciare il cervello a casa. Per distrazione magari, ma anche no.
E, parafrasando SIlvio Berlusconi ieri sera a Porta a Porta, si potrebbe anche dire che più che l’elettorato è la sinistra stessa, troppo spesso a lasciare il cervello a casa. Per distrazione magari, ma anche no.